Palazzo Ferrante

Mentre era in vita Antonio Ferrante (1786-1869), nel 1831, quando aveva raggiunto i quarantacinque anni, ospitò l’inglese Richard Keppel Craven. Nel suo libro, Craven, scrive un racconto assai interessante per avere delle buone notizie sul fabbricato oltre che sulla sua decorazione e arredo interno nella prima meta del XIX secolo nonché sul rapporto fra i civitani e l’allora capo della famiglia: ” il paese ha l’aspetto dei più modesti villaggi greci, composto di poche case povere fra massi rocciosi e cespugli di prugnoli, sulla superficie nuda e desolata di un squallido monte. Fra quelle, o meglio davanti a quelle, si innalza una chiesa moderna insieme ad un ampio palazzo il cui nucleo e i suoi successivi ampliamenti rivelano notevole spesa cd attenta cura. Qui alloggiammo la notte, naturalmente molto meglio di quanto mi aspettassi. Le parole del taverniere infatti mi avevano fatto intravedere al massimo la modestia abitazione di qualche galantuomo. dove avremmo potuto trovare ospitalità a pagamento. Trovammo invece che il signor Ferrante era evidentemente abituato, e ne traeva piacere, a ricevere ospiti con la cordialità riservata ai vecchi amici. Ci fu mostrata una lunga fila di stanze, arredate con ricchezza e lusso tali, che non potemmo evitare di chiederci in che modo camini rivestiti di marmo, tavoli intarsiati, dipinti in splendide cornici dorate e tutta l ‘altra roba, meno appariscente sia pur utile, lettiere intagliate, telai e porte di noce, serramenta di ottone, avevano potuto trovare il mezzo per raggiungere un posto cosi inaccessibile (29). Furono aperte, perché scegliessimo, una camera dopo l’altra, fra le tante preferimmo quella meno lontana dall’abituale soggiorno del nostro ospite, costituito da un salone riccamente ammobiliato, con annessa piccola biblioteca, ampiamente fornita di libri, per i quali egli mostrava grande interesse e dai quali, come appariva della sua conversazione, egli aveva tratto non poco giovamento. Questo signore era proprietario di estesi fondi, sia in Antino che nei luoghi vicini, e gli abitanti del paese sembravano trattarlo con un rispetto e una sottomissione tali da far ritenere tuttora in vita vassallaggio e servitù.

I modesti ordini che ci capito di vedergli impartire a qualche paesano, erano ricevuti con manifestazioni di obbedienza quasi idolatrica, ed erano eseguiti con una prontezza e una precisione che rivelavano l’abitudine alla incondizionata sottomissione verso chi era in modo evidente considerato il padrone. Una disposizione d’animo cosi generalizzata si spiega facilmente fra la gente completamente ed esclusivamente occupata in attività agricole, la quale vede, nell’unico proprietario di terre da essa conosciuto la sola persona da cui dipende per il lavoro, il salario, il castigo e la carità. La cosa ci colpi tanto da convincerci che l’ultima possibilità ha condizionato nel modo più determinante l’atteggiamento di questa gente. In seguito venne a sapere che le autorità provinciali ricorrono con maggior fiducia ai buoni uffici di lui, per la esecuzione di tutti i regolamenti municipali, per le misure di polizia e soprattutto per la esatta riscossione delle tasse, che non ai funzionari locali stipendiati “.(30)

Arriviamo cosi ad un’altra testimonianza molto importante sulla famiglia e sulla vita nel Palazzo dei Ferrante, quella dello scrittore inglese Edward Lear che soggiorno in questo luogo i giorni 28 e 29 agosto 1843, e cioè lo stesso anno della nascita di Christian Zarthamnn. Il racconto del Lear appare nel suo libro “Viaggio illustrato nei tre abruzzi”. Anche qui, come nel precedente scritto del Craven, si ricavano e ribadiscono preziose informazioni sulla generosa ospitalità della casa, su Civita d’Antino, sul suo costume e sui frutti della sua terra, vino incluso. Scrive Lear: “Trovai facilmente l’ampio palazzo di Don Antonio Ferrante, persona ricca e grande proprietario del Distretto. Don Antonio Ferrante non c ‘era: tuttavia, pur non avendo come presentazione altro che una semplice richiesta di rifugio per la notte, fui ricevuto benissimo, come se stessi viaggiando con un seguito di domestici, e fui condotto nel modo più bonario in una stanza bella e pulita. E, davvero, le comodità interne di Civita d’Antino sorprendano tanto di più, in quanto contrastano con l’aspetto esteriore del paese; quadri antichi e moderni in quantità, specchi e porcellane ornano le pareti, e il numero delle stanze e sorprendente; un appartamento, dove ha soggiornato l ‘attuale Re Ferdinando durante uno dei suoi viaggi, e splendido. Dello stesso buon gusto e della stessa raffinatezza fu il pranzo, che questa gentile famiglia preparo per me (essendo gia passata l’ora del loro pasto); tutti particolari che si possono riscontrare in qualunque casa di campagna di un gentiluomo del nostro paese. Un vino bianco del pasto fu particolarmente degno di lode: le costolette d’agnello avrebbero fatto onore all’ ospitalità dell’Inghilterra del sud e del Galles settentrionale. Il rappresentante del mio ospite assente era un medico di Sora piccolo e allegro, si scusava in quanto il secondo figlio di Ferrante, Manfredo, non poteva avere il piacere di ricevermi poiché non stava bene.

Il dottore mi assicurò che avevo perso molto per non essermi incontrato con Don Antonio in persona che, dichiaro ripetutamente, era un vero fulmine, anche se non mi spiego esattamente in che cosa il suo dotto amico (perché una volta Don Antonio era stato avvocato) assomigliasse ad un fulmine.. Dopo il pranzo e la siesta, il dottore mi mostro un giardino assai grazioso, adiacente alla casa dominante tutta l’ampia Valle di roveto, che ha l’aspetto della Svizzera. Nulla poteva essere più sorprendente e incantevole di questa villa ben curata, in un luogo tanto remoto; e mi fu facile pensare perché queste famiglie per mesi, anzi per anni, non andassero fuori delle proprie terre. Infatti la fatica di salire fino a queste case, arroccate su un picco, rende impensabile che esse contengano tutto ciò che può soddisfare i bisogni dei loro proprietari. In una grotta del giardino era tenuto un cinghiale solitario, preso di recente nei boschi circostanti, che non sembrava in alcun modo rassegnato ai lussi del parco, la sua nuova dimora. Ero desideroso di realizzare una immagine fedele di Civita d’Antino; la potei eseguire invece a male pena, in quanto un terribile temporale annunciato da nubi, che avevano tinto la scena di una fosca grandiosità, mi spinse al palazzo Ferrante, dove, fino a sera, fui rallegrato da una apprezzabile esibizione al pianoforte di Don Manfredo Ferrante che, al mio ritorno, trovai a casa. La nostra compagnia fu ultimamente arricchita da Donna Maria Ferrante e da una figlia, che, ben lunghi dall’ essere bella come sua sorella donna Costanza Coletti, era pero assai piacente. La padrona di casa, a sua volta, appariva ancora di notevole bellezza nel volto e attraente nei modi.

La quieta, raffinata padronanza di se e la semplice affabilità di queste donne abruzzesi del ceto medio elevato ci piacevano molto, e immaginavo di vedere i fac-simili delle dame del nostro paese del XIV e XV secolo, 20 agosto 1843: ho trascorso la mattina a disegnare. La grandiosità della catena dei monti impedisce a Civita d’Antino di essere riprodotta facilmente su carta. Un pò di tempo l’ho anche dedicato agli antichi resti ciclopici intorno al paese. Dopo il pranzo di mezzogiorno sono partito (nonostante questa buona gente insistesse molto perché restassi) e Don Manfredo mi ha accompagnato per due o tre miglia. Nella vita di questo giovane si era verificato un singolare cambiamento: era stato educato a Napoli e ben abituato alle distrazione della metropoli, da poco tempo era stato costretto a rinunciare alla spensierata condizione di figlio più giovane (quale egli era) per adempiere i doveri più gravosi, come rappresentante di suo padre, dato che il fratello maggiore aveva improvvisamente rinunciato a tutti i suoi diritti sulla proprietà della famiglia per farsi Gesuita. Non potei fare a meno di pensare, dalIe osservazioni di Don Manfredo, che questa prospettiva di ricchezza e di dignità apparisce un magro compenso rispetto alla perdita della liberta: un proprietario abruzzese raramente lascia le tenute paterne: ” siamo come lupi, chiusi in queste montagna “, diceva: “non vado più in città”. (31) Un’altra testimonianza sulla casata e sul Palazzo Ferrante, questa volta più vicina a noi nel tempo, e del 12 febbraio 1915, un mese dopo il terribile terremoto di Avezzano. Si tratta di esteso articolo, di un anonimo cronista, molto pessimista sul futuro del paese, pubblicato su “Il Giornale d’Italia”, che parlando di Civita d’Antino dice: “questo ameno paesello, villeggiatura prediletta dei danesi, e ricco di memorie storiche e stata appena menzionato dai giornali come danneggiato dal terremoto mentre, al pari di altri villaggi, non resterà che un letto di macerie quando le poche case rimaste in piedi verranno del tutto atterrate perché pericolanti e inabitabili.